Rocchetta, un ridente paesino delle colline astigiane sito sulla destra del Tanaro, il fiume sacro ai nebbioli e alle barbere, vantava, sino alla metà degli anni Ottanta, abitanti bizzarri, curiosi e stravaganti, ma non annoverava più adulteri di quanti se ne verifichino in tutti i paesi delle campagne italiane, né le donne di facili costumi e di liberi amori erano in numero superiore alla media.
Senonché, a partire dal 1985, cominciò a tirare in paese un’aria decisamente licenziosa. Donne che si erano sempre rifiutate, non solo cedevano, ma quasi assumevano l’iniziativa e, sul finire di ogni estate, il dottor Mario Frola, direttore del locale parco naturale, aveva dovuto istituire un servizio per recuperare reggiseni e mutandine dimenticate nei luoghi più appartati e tranquilli. Uno dei sette vizi capitali, la lussuria, imperava fomentando libidinose brame nelle donne di Rocchetta Tanaro e, all’osteria, era tutto un gran pettegolare fra sorrisi e ammiccamenti. Il parroco, Don Giuseppe Bologna, informato forse da confessioni, certo sobillato da delazioni di beghine ascetiche e coatte, se ne preoccupò oltre misura lamentando col sindaco, cavalier Icardi, che, se l’andazzo fosse continuato, non si sarebbero più trovate, in paese, fanciulle illibate, e che l’aggettivo “onesta” non si sarebbe potuto più impiegare per le parrocchiane. Cosa era accaduto? Quale molla aveva fatto abbassare difese e ritegni? Don Bologna cominciò a indagare e si convinse che galeotto fu un vino: il Bricco dell’Uccellone. Una Barbera. È tale vitigno la “pistapauta” (fanteria) dello schieramento vinicolo piemontese e fornisce circa il 50% della produzione regionale; dà un vuno quotidiano, gran protagonista nelle osterie, almeno sinatntoché non verranno tutte debellate dagli insulsi fast food, i luoghi di inghiottimento rapido senza diletti né conversazione, che non vantava alti lignaggi fino al 1985. Allorquando Giacomo Bologna, detto Braida, valido produttore vinicolo locale, omonimo ma non parente del parroco, non lo nobilitò presentando il Bricco dell’Uccellone 1982, una Barbera con tutti i suoi quarti di nobiltà: vigne vecchie e di collina, raccolti contenuti, sapiente vinificazione, invecchiamento in barrique e così via.
Questa Barbera, “vino da tavola”, purpurea, ricca di compositi aromi e fragranze, piena e possente, ammaliatrice e sensuale, si impose non solo come di gran lunga la migliore delle Barbere, ma si collocò tra i grandi vini rossi italiani. Da allora gli estimatori si moltiplicarono, e così gli incauti imitatori, e la fama travalicò i confini. Le riviste internazionali di maggior prestigio si occuparono del vino e del produttore, l’inglese Michael Broadbent, il più autorevole enofilo del mondo, incluse sulla rivista Decanter il Bricco dell’Uccellone.
Mentre questo vino raccoglieva generali consensi, il parroco si andava vieppiù convincendo che il nome fosse malizioso e il vino, per le donne, malandrino. Quando Don Bologna deprecò, parafrasando il proslogion di Sant’Anselmo, che “anche l’insipiente ha in cuor suo l’Uccellone”, in paese tirava aria pesante.
Il sindaco, uomo da tutti stimato, cercò di acquietare il parroco suggerendo che la debolezza della carne inducesse alcune donne di Rocchetta a peccare contro il sesto comandamento, e non il Bricco dell’Uccellone; che era quest’ultimo, un dono del cielo e non un tizzone d’inferno.
Ahinoi!
Don Bologna rivendicò il primato del potere spirituale e disse a chiare lettere che i politici pensassero ad amministrare con onestà la cosa pubblica mentre sua, squisitamente sua, era la cura delle anime.
Pareva di esser tornati ai tempi di Don Camillo e Peppone, al tempo di quelle belle litigate caserecce tra Stato e Chiesa, ancora un po’ e si sarebbe rispolverato il Sant’Uffizio.
Il produttore non sapeva più a che Dioniso votarsi; il suo Bricco dell’Uccellone, venduto oramai quasi per la totalità in prenotazione, non aveva certo necessità della qualifica di afrodiasiaco né, d’altro canto, amava essere additato come il serpe tentatore delle donne oneste di Rocchetta. Per non dire che la moglie, la bella Anna Martinengo di Belveglio, non sorrideva certamente al pensiero di essere considerata non la consorte di un produttore di grandi vini bensì la compagna di un prosseneta incoercibile che Cupido aveva sciolto tra i vigneti piemontesi.
(…) Fu così che Giacomo Bologna cercò un altro Bricco, che in Piemonte indica la sommità di una collina, piuttosto che il conenitore per il latte, che avesse sentore di astinenza da opporre a quello in odore di peccato.
Ci sarebbe voluto una sorta di vin santo che placasse gli ardori, o almeno le polemiche.
Cercò e lo trovò, con venusti vigneti a barbera, un nome non privo, considerata la situazione, di lusinga: il Bricco della Bigotta, un’altra grande Barbera di Rocchetta Tanaro.
Il parroco Don Bologna si rasserena, il sindaco Stefano Icardi tira un sospiro di sollievo, fa il suo mestiere in quel paese da venticinque anni suonati, e la querelle rischiava di incrinare un lungo esercizio di diplomazia, ora si bisbiglia persino che il Bricco della Bigotta, assaporato con consapevolezza, procuri non assoluzione, non remissione, bensì indulgenze.
(intervento di Riccardo Riccardi in “Giacomo Bologna” di Nichi Stefi)
Pubblicato il 3 Settembre, 2022